
Il caso Diarra
di Gabriele Nicolella
Il 4 ottobre 2024 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte d’Appello di Mons, in Belgio. Il procedimento principale pendente dinanzi alla Corte d’Appello di Mons è stato avviato dal calciatore Lassana Diarra, di nazionalità francese, nei confronti di FIFA e URBSFA (Unione Royale Belge des Societes de Football Association), per reclamare il proprio diritto al risarcimento del danno derivante dalla perdita di proposte di ingaggio asseritamente subìto a causa dell’applicazione di due istituti previsti dal Regulations on the Status and Transfer of Players (RSTP):
– quello inerente la responsabilità solidale del calciatore e della società che acquisisce le prestazioni sportive dello stesso successivamente all’interruzione unilaterale senza giusta causa del previgente rapporto contrattuale, rispetto al pagamento dell’indennità dovuta alla società che ha subìto il recesso, nonché le sanzioni sportive e finanziarie conseguenti a carico di entrambi;
– quello inerente la possibilità per la Federazione nazionale di appartenenza della società che ha subìto il recesso di non emettere l’ITC (International Transfer Certificate), necessario ai fini dell’ingaggio del calciatore da parte di una nuova società, in caso di controversia tra detta società di provenienza e il calciatore.
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Il quadro fattuale
La vicenda trae origine dal contenzioso instauratosi tra il calciatore e la Lokomotiv Mosca nell’agosto 2014, allorquando la società russa si rivolse alla Dispute Resolution Chamber della FIFA (DRC) sostenendo il configurarsi di una risoluzione senza giusta causa da parte dell’atleta rilevante ex art. 17 RSTP: medio tempore, a fronte della conclusione del rapporto con il club russo, il calciatore aveva cercato nuove opportunità di ingaggio, riscontrando l’interesse unicamente dello Sporting du Pays de Charleroy a febbraio 2015, interesse comunque condizionato al fatto che, entro il 30 marzo 2015, (i) il calciatore fosse stato effettivamente un tesserato della società belga in possesso di tutti i requisiti per la partecipazione alle competizioni nazionali e internazionali, e (ii) si fosse ottenuta conferma scritta e incondizionata che non sussistesse alcuna responsabilità solidale a carico del nuovo club per l’eventuale condanna del calciatore a versare un risarcimento in favore della Lokomotiv Mosca. La FIFA replicò che, evidentemente, le disposizioni del RSTP potevano trovare applicazione solamente da parte dell’organo giurisdizionale e non di quello amministrativo, e che ad ogni buon conto il tesseramento del calciatore sarebbe stato possibile unicamente a seguito di rilascio di ITC in assenza di contenzioso con la società di provenienza. Il procedimento dinanzi alla DRC si concluse poi a maggio del 2015 con la condanna di quest’ultimo al risarcimento in favore della società dell’importo pari ad € 10.500.000, decisione confermata dal Tribunal Arbitral du Sport-Court of Arbitration for Sport di Losanna (TAS-CAS). A luglio 2015, il calciatore divenne un tesserato dell’Olympique Marsiglia, e a dicembre 2015 si rivolse al Tribunal de Commerce du Hainaut, divisione di Charleroy, nei confronti di FIFA e URBSFA, richiedendo un risarcimento del danno pari ad € 6.000.000 per asserite violazioni da queste ultime commesse nell’applicazione dei due principi sù richiamati, a suo dire illegittima alla luce del diritto unionale. A gennaio 2017 il Tribunal de Commerce du Hainaut dichiarava la domanda di Diarra prima facie fondata e condannava FIFA e URBSFA al versamento di una provvisionale pari ad € 60.001. La FIFA impugnava così la decisione dinanzi alla Corte d’Appello di Mons, odierno giudice del rinvio.
Ricostruito brevemente il quadro fattuale, occorre adesso richiamare le disposizioni normative interessate, rettificando alcuni dei riferimenti richiamati nella decisione CGUE in quanto nel frattempo oggetto di modifica normativa in ambito RSTP.
Il quadro normativo
L’art. 17 RSTP (rubricato “Consequences of terminating a contract without just cause”), prevede:
– al comma 1, che “In all cases, the party in breach shall pay compensation. Subject to the provisions of article 20 and Annexe 4 in relation to training compensation, and unless otherwise provided for in the contract, compensation for the breach shall be calculated with due consideration for the law of the country concerned, the specificity of sport, and any other objective criteria. These criteria shall include, in particular, the remuneration and other benefits due to the player under the existing contract and/or the new contract, the time remaining on the existing contract up to a maximum of five years, the fees and expenses paid or incurred by the former club (amortised over the term of the contract) and whether the contractual breach falls within a protected period”;
– al comma 2, che “If a professional is required to pay compensation, the professional and his new club shall be jointly and severally liable for its payment”;
– al comma 4, che “In addition to the obligation to pay compensation, sporting sanctions shall be imposed on any club found to be in breach of contract or found to be inducing a breach of contract during the protected period. It shall be presumed, unless established to the contrary, that any club signing a professional who has terminated his contract without just cause has induced that professional to commit a breach. The club shall be banned from registering any new players, either nationally or internationally, for two entire and consecutive registration periods. The club shall be able to register new players, either nationally or internationally, only as of the next registration period following the complete Maintenance of contractual stability between professionals and clubs serving of the relevant sporting sanction. In particular, it may not make use of the exceptions stipulated in article 6 paragraph 3 of these regulations in order to register players at an earlier stage”.
L’art. 9 co. 1 RSTP prevede che “Players registered at one association may only be registered at a new association once the latter has received an International Transfer Certificate (hereinafter: ITC) from the former association. The ITC shall be issued free of charge without any conditions or time limit. Any provisions to the contrary shall be null and void. The association issuing the ITC shall lodge a copy with FIFA. The administrative procedures for issuing the ITC are contained in Annexe 3 of these regulations”.
A seguito dell’implementazione del Transfer Matching System (TMS), le disposizioni dell’Allegato 3 al RSTP richiamate nella decisione (art. 8.2 co. 7 e 8.2 co. 4b) devono intendersi trasposte nell’art. 11 Allegato 3 RSTP, il quale prevede:
– al comma 2, che “Where the player was a professional at his former club, upon notification of the ITC request, the former association shall immediately request the former club to confirm whether or not:
a) the employment contract has expired; or
b) an early termination was mutually agreed”;
– al comma 3, che “Within seven days of the ITC request, the former association shall either:
a) deliver the ITC to the new association; or
b) reject the ITC request, select the reason for the rejection, and upload a duly signed supporting statement.
A rejection may only be made where:
i) an employment contract between the former club and the professional player is considered to be still in force; or
ii) there has been no mutual agreement regarding its early termination”.
Il calciatore, nel sostenere la propria pretesa di risarcimento del danno, ritiene che le predette norme siano da considerarsi illecite in quanto violative dei principi unionali della libera circolazione dei lavoratori (art. 45 TFUE) e del divieto di intese restrittive della concorrenza (art. 101 TFUE).
L’art. 45 TFUE prevede che “1. La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata.
2) Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
3) Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto:
a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;
b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;
c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali;
d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.
4) Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione”.
L’art. 101 TFUE prevede che “1. Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;
b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;
e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.
2) Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto.
3) Tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate inapplicabili:
– a qualsiasi accordo o categoria di accordi fra imprese,
– a qualsiasi decisione o categoria di decisioni di associazioni di imprese, e
– a qualsiasi pratica concordata o categoria di pratiche concordate,
che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di:
a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi;
b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.
Il quadro giuridico
Lo sviluppo del mondo sportivo, oltre che dal punto di vista sociale, anche e soprattutto sotto il profilo economico e commerciale, non è rimasto immune dall’intervento comunitario sin dalla metà degli anni ’70 con una copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia, in particolare per quanto riguarda la distinzione tra professionista e dilettante, dopo di che saranno necessari circa vent’anni prima che la Corte torni ad occuparsi dei rapporti tra diritto comunitario e diritto sportivo, in particolare sotto il delicato profilo della libera circolazione degli atleti professionisti all’interno dell’Unione Europea. La prima pronuncia in materia è quella relativa al noto caso Walrave e Koch (CGUE, sentenza del 12 dicembre 1974, causa C-36/74), laddove la questione pregiudiziale era stata sollevata da un tribunale olandese e riguardava la liceità rispetto al diritto comunitario di una clausola del Regolamento dell’Union Cycliste Internationale (UCI) in cui si richiedeva che, per determinate competizioni ciclistiche, l’allenatore dovesse avere la stessa nazionalità del corridore. Il secondo caso origina in Italia (CGUE, sentenza del 14 luglio 1976, causa C-13/76), laddove la questione pregiudiziale era stata sollevata dal Tribunale di Rovigo e riguardava la compatibilità con i principi unionali di una disciplina nazionale che riservasse ai soli cittadini di uno Stato membro il diritto di partecipare ad incontri di calcio, salvo il caso in cui tale limitazione fosse giustificata dalle peculiarità di detti incontri, e comunque per motivi non economici e di natura prettamente sportiva (un esempio può essere rinvenuto nelle gare cui partecipano le selezioni nazionali di due Stati membri). Si arriva così alla celebre “sentenza Bosman” (CGUe, sentenza del 15 dicembre 1995, causa C-415/1993), che fece seguito alla questione sollevata dal Tribunal Istance di Liegi, adito dal giocatore belga Marc Bosman al fine di accertare giudizialmente l’incompatibilità con il diritto comunitario della previsione inerente il pagamento di un’indennità nel caso di cessione di un calciatore il cui contratto fosse giunto a scadenza, nonché nella parte in cui, discriminando fra i calciatori di altri Stati membri, non consentiva una libera circolazione dei giocatori comunitari nei vari campionati nazionali. Accogliendo le richieste del calciatore, la CGUE sancì la contrarietà all’art. 48 (ora 45) del Trattato CE (oggi TFUE) di qualsiasi norma emanata da società o associazioni sportive secondo la quale (i) un calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del proprio contratto, può essere ingaggiato da una società di un altro Stato membro solo se quest’ultima versi alla società di provenienza un’indennità di trasferimento, formazione e promozione, e (ii) le società possono schierare un numero limitato di calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri. La sentenza Bosman ha avuto un impatto senz’altro significativo sul settore calcistico professionistico, ma non può che trovare condivisione allorquando si pone mente al fatto che, giuridicamente, il trasferimento di un calciatore integra una cessione di contratto, e dunque alcun corrispettivo per il trasferimento/indennità può essere rivolta alla società che deteneva le prestazioni sportive del calciatore da parte della società che le acquisisce, essendo il vincolo contrattuale giunto a naturale scadenza. Si ritiene in altri termini che la decisione in commento, nonché la conseguente produzione adeguatrice del quadro normativo ai principi da essa portati, abbia regolato quel piano fisiologico del rapporto di lavoro dello sportivo professionista che inerisce al trasferimento delle proprie prestazioni sportive secondo l’ordinato e lecito dipanarsi della vicenda contrattuale. Occorre anticipare sin d’ora come sotto questo profilo si ritenga in alcun modo richiamabile il “caso Bosman” rispetto al “caso Diarra”, in quanto in quest’ultimo si è andati ad occuparsi di un aspetto che attiene al piano patologico della vicenda contrattuale, secondo le considerazioni che appresso seguiranno. Si rammenta, ad ogni buon conto, come già la sentenza Bosman fu al tempo da alcuni definita una decisione “poco equilibrata”, in quanto privilegiatrice di una lettura in chiave quasi esclusivamente commerciale, con scarsa attenzione ad aspetti fondamentali della vita sportiva che si ritenevano fortemente connessi a quella che è la struttura piramidale della sua organizzazione nonché disattendendo un principio importantissimo dell’ordinamento comunitario, cioè quello di “sussidiarietà”: la Corte di Giustizia, infatti, considerando in termini puramente economici la libera circolazione degli sportivi, precluse di fatto la possibilità che tale diritto potesse essere regolamentato in maniera autonoma nella fase applicativa dai singoli ordinamenti nazionali ed internazionali, ignorando un processo di disciplina sportiva che affonda le sue radici in una creazione pattizia da parte di ordinamenti sportivi (situazione che giuristi ed esperti del settore di tutta Europa hanno già da tempo segnalato come fonte giuridica creatasi attraverso gli usi – cfr Mennea, Normativa e tutela dello sport, Torino, 2007, pp. 94-95). Dopo la sentenza Bosman, la Corte di Giustizia si trovò nuovamente ad intervenire in materia di diritto sportivo in una serie di casi, tra i quali si segnalano i casi Deliège (CGUE, decisione dell’11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97), Lehtonen (CGUE, decisione del 13 aprile 2000, causa C-176/96), Simutenkov (CGUE, decisione del 12 aprile 2005, causa C-265/2003), Meca Medina (CGUE, decisione del 18 luglio 2006, causa C-519/04), Bernard (CGUE, decisione del 16 marzo 2010, causa C-325/08), sino al recente caso della c.d. Superlega (CGUE, decisione del 21 dicembre 2023, causa C-333/21), oltre alle attualmente pendenti cause C-209/23 (in materia di FIFA Football Agent Regulations) e C-600/2023 (in materia di validità delle clausole arbitrali imposte dalle Federazioni rispetto al principio generale della effettività della tutela giurisdizionale), con conclusioni dell’Avvocato Generale attese tra la fine del 2024 e il 2025, e decisione della CGUE nel 2025. Occorre rammentare che il quadro odierno in ambito RSTP deriva da un accordo intervenuto tra i commissari Monti, Reding e Diamantopoulou, il Presidente FIFA Blatter e il Presidente dell’UEFA Johansson, per la revisione del Regolamento nella versione allora vigente, risalente al 1997 (c.d. Accordo di Bruxelles del 5 marzo 2001), sulla base di una serie di principi, tra i quali quello per cui in caso di scioglimento unilaterale di un contratto da parte di un calciatore o di una società, può essere previsto un indennizzo, e quello per cui in caso di scioglimento unilaterale del contratto senza giustificati motivi durante il periodo protetto possono essere applicate sanzioni sportive proporzionate ai calciatori, alle società o agli agenti. Tali principi furono trasfusi nel RSTP adottato dal Comitato Esecutivo della FIFA il 5 luglio 2001 ed entrato in vigore il 1° settembre del medesimo anno (la versione attuale del Regolamento è stata approvata dal Comitato Esecutivo del 15 maggio 2024 ed è entrata in vigore il 1° giugno 2024): fu così disciplinato il c.d. breach of contract, prevedendo che se il recesso (ante tempus e senza giusta causa) fosse avvenuto nei primi tre anni – ossia durante il c.d. “periodo protetto”- il calciatore interessato avrebbe subìto una squalifica di 4 o al massimo 6 mesi, mentre ove tale recesso fosse avvenuto dopo lo scadere del “periodo protetto”, il giocatore sarebbe stato solo tenuto al risarcimento del danno contrattuale, senza sanzioni disciplinari. Per inquadrare correttamente la fattispecie, è doveroso ricordare che gli articoli da 13 a 18 RSTP sono dedicati alla “Maintenance of contractual stability between professionals and clubs”. In particolare, l’art. 13 RSTP prevede che “A contract between a professional and a club may only be terminated upon expiry of the term of the contract or by mutual agreement”, e l’art. 16 prevede che “A contract cannot be unilaterally terminated during a competition period”, oltre poi alle già note previsioni dell’art. 17, nonché del combinato disposto dell’art. 9 dell’art. 11 Allegato 3. Gli artt. 14, 14bis e 15 disciplinano invece il recesso unilaterale per giusta causa ovvero giusta causa sportiva. Le norme citate tendono al bilanciamento di due opposte esigenze, l’interesse del club alla stabilità dei rapporti contrattuali con i propri tesserati da una parte e la libertà di circolazione dei giocatori dall’altra. In materia, ha destato particolare interesse, sia a livello dottrinale che giurisprudenziale, l’applicazione dei parametri sanciti dall’art. 17 RSTP ai fini del calcolo del risarcimento posto a carico della parte inadempiente in caso di risoluzione del contratto di prestazione sportiva senza giusta causa. Nel 2022 si ricorda la vicenda del calciatore Daniel Ortega (TAS 2003/O/482 Ariel Ortega/Fenerbahçe & FIFA, lodo del 5 novembre 2002), condannato dalla DRC, a seguito del recesso unilaterale dal contratto in assenza di giusta causa, al pagamento in favore del Fenerbahçe SK di USD 11.000.000, in considerazione dei seguenti elementi: (i) la circostanza per cui la risoluzione era avvenuta in costanza del periodo protetto e, per di più, a metà stagione sportiva, (ii) gli importi versati dal Fenerbahçe al Parma e al River Plate, precedenti club nei quali il giocatore aveva militato, per acquisire le prestazioni sportive di quest’ultimo, (iii) gli altri costi sostenuti dal Fenerbahçe per il tesseramento del giocatore, (iv) il compenso versato al giocatore a titolo di diritti di immagine, (v) la validità residua del contratto. Nel 2005 si svolge la vicenda riferita al calciatore Philippe Mexes (CAS 2005/A/902, Philippe Mexes & AS Roma/AJ Auxerre, lodo del 5 dicembre 2005), laddove il TAS prese in considerazione, oltre alla remunerazione dovuta in forza del contratto in vigore, anche l’offerta che la Roma aveva formulato all’Auxerre, titolare del precedente tesseramento. Risale al 2008 la vicenda del calciatore Andy Webster (TAS 2007/A/1298-1300, Heart of Midlothian Plc/Wigan Athletic FC & Webster, lodo del 30 gennaio 2008), particolarmente rilevante poiché in quel caso il TAS utilizzò un unico criterio ai fini della liquidazione dell’indennizzo, e cioè quello relativo al valore della remunerazione e degli altri benefici dovuti al giocatore in virtù del contratto risolto. In sostanza, a seguito del caso Webster sembrava essersi cristallizzato il principio in forza del quale il metodo di calcolo del risarcimento dovesse essere quanto più possibile prevedibile, nonché il principio per cui esso non dovesse assurgere a strumento punitivo. In definitiva, si individuava il valore della remunerazione del giocatore ai sensi del contratto inadempiuto quale unico parametro in caso di recesso senza giusta causa, fuori dal Periodo protetto e senza residuale ammortamento del prezzo di acquisizione del giocatore. Il “portato” del caso Webster sembrava, dunque, essere quello per cui la disciplina di cui all’art. 17 RSTP è da interpretarsi nel senso che scaduto il Periodo protetto i giocatori “possono” recedere dal contratto pagando un prezzo pari al valore dei compensi ivi previsti per la parte residua e non eseguita del rapporto, compensi che, viene precisato, sono quelli del contratto ripudiato, non quelli del nuovo contratto. Quasi a significare che, nel duplice piano che il presente elaborato si propone di indagare, il c.d. breach of contract potesse intendersi riferito al piano fisiologico della vicenda contrattuale, anziché a quello patologico. Quanto precede, tuttavia, è stato ben presto smentito da un’altra decisione che intervenne di lì a breve, inerente il calciatore Francelino da Silva Matuzalem (TAS 2008/A/1519-1520, FC Shakhtar Donetsk/Mr Matuzalem Francelino da Silva & Real Zaragoza SAD, lodo del 19 maggio 2009), laddove il TAS prese le distanze dai principi utilizzati nel caso Webster, basando la quantificazione dell’indennizzo sui seguenti parametri: – il valore economico dei “servizi” resi dal giocatore, determinato sulla base di due elementi, (i) la remunerazione media riconosciuta al giocatore, così come risultante dai contratti di prestazione sportiva sottoscritti dal medesimo, a seguito del recesso, con il Real Zaragoza e ancora successivamente con la Lazio, e (ii) il corrispettivo riconosciuto a seguito della concessione del diritto d’opzione a favore della Lazio; – le annualità retributive residue dovute dallo Shakhtar Donetsk (anche se, a differenza del caso Webster, tale importo è stato dedotto dall’indennità, sulla base della considerazione per cui la relativa somma veniva “risparmiata” dal club che aveva subìto il recesso da parte del giocatore); – la circostanza per cui la risoluzione del contratto era avvenuta nell’imminenza delle qualificazioni per la Coppa UEFA (oggi Europa League). Seppur basato su circostanze fattuali alquanto diverse rispetto al caso Webster, nella decisione Matuzalem fu adottato un diverso approccio, ponendo maggior rilievo all’esigenza di salvaguardia dei club a fronte del recesso unilaterale ante tempus da parte del giocatore, cercando in sostanza di affermare il principio per cui la risoluzione del contratto senza giusta causa, ancorché verificatasi al di fuori del periodo protetto, costituisce nondimeno un grave inadempimento dei propri obblighi contrattuali, ribadendo conseguentemente come l’art. 17 RSTP non fornisca, né per il club né per il giocatore, la facoltà di violare un accordo in vigore: in altre parole, ci si sta interessando della fase patologica, non di quella fisiologica, della vicenda contrattuale. Si ribadì dunque quello che pareva essere, nei termini anzidetti, il “portato” della decisione Webster, sancendo al contrario l’inesistenza di un meccanismo di calcolo teso a predeterminare il risarcimento, con correlativa incertezza sull’ammontare dei danni conseguenti alla prematura interruzione del rapporto. Si arriva così alla vicenda riferita al calciatore Gael Kakuta (DRC Lens/Chelsea & Kakuta, decisione del 4 settembre 2009), nella quale l’organo giurisdizionale FIFA sanzionò pesantemente i protagonisti della stessa: nonostante il prematuro epilogo della vicenda, definita transattivamente con accordo ratificato dal TAS, il caso Kakuta rappresentò un chiaro monito nei confronti dei club, in quanto dimostrò l’attenzione della FIFA al tema dei trasferimenti internazionali di giocatori, attraverso una severa applicazione del RSTP. Nel 2010 si svolge la vicenda del calciatore Morgan De Sanctis (TAS, 2010/A/2146 Morgan de Sanctis v. Udinese Calcio S.p.A. lodo del 28 febbraio 2011), laddove il TAS decise di seguire il principio del “positive interests”, ovvero rimettere il club nella situazione in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l’inadempimento/recesso ingiustificato (paragrafo 61 “an amount which shall basically put the injured party in the position that the same party would have had if the contract was performer properly”). La pronuncia fu particolarmente innovativa perché non utilizzò il criterio del “valore del calciatore”, non essendo stato, tale valore, debitamente provato: al paragrafo 77 si legge infatti che “In this case, none of the parties produced any evidence of any offers made or pending for the Player”, mentre al paragrafo 86 si afferma “In the absence of any concrete evidence with respect to the value of the Player, the Panel cannot apply exactly the same calculation as in Matuzalem and shall use a different calculation method to determine the appropriate compensation, the one which would be the closest to the amount that Udinese would have got or saved if there had been no breach by the Player”. Il TAS prese dunque in considerazione i c.d. “replacement costs”, sostenuti dalla società che aveva subìto il recesso, deducendo da tale valore quanto risparmiato dopo la risoluzione, e pertanto le rimanenti retribuzioni che il club avrebbe dovuto riconoscere al portiere italiano. Infine, il TAS optò per l’applicazione dell’ulteriore requisito della “specificità dello sport” aggiungendo al citato importo anche l’equivalente di sei mesi di retribuzione.
Riflessioni conclusive
Occorre anzitutto osservare come il caso di specie fornisca lo spunto per porre l’attenzione al necessario rispetto di principi quali quello di autonomia, di specificità e di sussidiarietà dello sport, tratti caratterizzanti ed imprescindibili ai fini del corretto, equo e regolare svolgimento delle competizioni sportive, che trovano declinazione nei contesti statutari a livello mondiale, continentale e nazionale. Se è evidente come l’organizzazione settoriale non possa porsi in contrasto con la dimensione sovraordinata, sia in ambito domestico che internazionale, è altrettanto vero che non può sottrarsi alla organizzazione in parola la potestà normativa volta a disciplinare ambiti che generano ricadute potenzialmente impattanti sulla regolarità ed equità della competizione. Occorre in questo senso distinguere quel duplice piano che costituisce, in ultima analisi, il vero discrimine tra ambito di regolazione “controllata” e ambito di regolazione necessariamente autonoma: ci si riferisce, rispettivamente, al piano del contratto e a quello del tesseramento. In altre parole, il versante contrattuale è senz’altro esposto alla incidenza di norme sovraordinate, come anche ad interventi giurisdizionali che affermino la necessità applicativa di determinati vincoli imperativi (come nel caso Bosman), mentre tale permeabilità non può caratterizzare il versante del tesseramento, laddove non è ipotizzabile alcuna compressione dei su richiamati principi. Il piano del tesseramento (ove si ci riferisca a persone fisiche), al pari di quello dell’affiliazione (ove ci si riferisca a persone giuridiche), coinvolge evidentemente anche il profilo disciplinare, che costituisce il vero ed unico baluardo nella necessaria composizione tra gli interessi in gioco nel caso di specie, ovvero quello di stabilità contrattuale e di libera circolazione dei calciatori. L’interesse di sistema alla stabilità contrattuale è evidentemente e fortemente interconnesso con la garanzia dell’equo e regolare svolgimento della competizione: non può impedirsi l’iniziativa del tesserato che si determina al recesso unilaterale nei confronti della società sportiva in assenza di giusta causa, ma non può ritenersi accettabile il sindacato esterno sulle conseguenze sanzionatorie che il sistema pone a tutela del predetto equo e regolare svolgimento della competizione. In questo senso, se è legittimo l’intervento regolatorio della fase fisiologica della vicenda contrattuale, deve invece preservarsi l’ambito di autonomia regolatoria settoriale nella fase patologica della vicenda medesima, in quanto ricadente sul piano disciplinare. L’alveo di stretta inerenza di settore, come appunto quello del tesseramento per gli atleti e quello dell’affiliazione per le società sportive, deve rimanere esclusivo appannaggio delle istituzioni sportive. Ecco dunque che gli aspetti toccati dalla decisione Diarra, sia quello inerente la responsabilità solidale del calciatore e della società che acquisisce le prestazioni sportive dello stesso successivamente all’interruzione unilaterale senza giusta causa del previgente rapporto contrattuale, sia quello inerente la possibilità per la Federazione nazionale di appartenenza della società che ha subìto il recesso di non emettere l’ITC, concretano ambiti nei quali non può ritenersi ammissibile un sindacato giurisdizionale, illegittimo in quanto confliggente con i prefati principi di autonomia, specificità e sussidiarietà dello sport. Deve in chiusura rilevarsi come i due istituti contestati dalla CGUE rispondano perfettamente a quell’esigenza di mantenimento della stabilità contrattuale che il sistema deve necessariamente perseguire: se l’eventuale venir meno del primo determinerebbe unicamente una maggiore responsabilizzazione in capo al calciatore, che in considerazione della propria condizione di parte contrattuale inadempiente rimane unico esposto alla pretesa risarcitoria della parte contrattuale non inadempiente (ovvero la “vecchia” società), il venir meno del secondo rischia in via di principio di abbattere un significativo baluardo alla stabilità in parola. Quanto precede, tuttavia, si ritiene possa valere unicamente in via di principio, posto che ad avviso di chi scrive l’arresto giurisprudenziale unionale potrebbe produrre l’effetto esattamente inverso a quello che l’arresto medesimo ed i suoi primi interpreti hanno inteso valorizzare: in disparte il versante del rilascio dell’ITC, aspetto solo successivo all’eventuale recesso, il fatto che il calciatore rimanga esposto in via esclusiva all’obbligo risarcitorio nei confronti della “vecchia” società (senza dunque il coinvolgimento solidale della “nuova” società) potrebbe generare in definitiva l’effetto di circoscrivere fortemente i casi di breach of contract ex art. 17 RSTP, ovvero indurre le parti ad inserire clausole ad hoc all’interno dei contratti di prestazione sportiva, come peraltro già consentito sulla base della normativa vigente.